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Cucina di confine
La cucina non sembrava essere nel suo destino, quando studiava da avvocato a Milano. Successivamente ha deciso di provarci, e Antonia Klugmann, in pochi anni, è arrivata alla stella Michelin con L’argine a Vencò, il suo ristorante a cavallo tra Italia e Slovenia. La sua ricetta è tanto semplice da pensare quanto impegnativa da seguire: rimanere fedele al territorio e alla sostenibilità, con tutti i prodotti utilizzati.
Per questo il Collio, quello italiano ma anche quello che si estende oltreconfine, è così importante: è da qui, a partire dal piccolo orto e dal frutteto che crescono davanti l’ingresso, che vengono quasi tutti gli ingredienti che Antonia utilizza. «I clienti vengono qui non per me, ma per il territorio. O il territorio funziona, oppure io sono un’astronave nel nulla».
Mentre guido verso L’argine a Vencò, una mattina di dicembre, devo forzare l’attenzione sulla strada e sul navigatore che mi anticipa le svolte da prendere, per non tenere gli occhi fissi sul paesaggio, le colline, i vitigni che mi circondano. Antonia Klugmann sta scaricando dall’auto e portando in cucina alcune cassette di frutta e verdura, mentre parcheggio sulla ghiaia. A pochi metri da me, l’orto del ristorante. Tutto intorno solo boschi, campi e colline; non una costruzione, eccetto il vecchio granaio accanto al quale L’argine è stato costruito. Oltre ancora, una serie di filari, il confine, la Slovenia.
È martedì, e il servizio pomeridiano non c’è. In cucina e nel ristorante – è così piccolo, con i suoi 15 coperti, che pare di stare in un salotto – l’atmosfera è rilassata. Antonia istruisce i tre aiutanti sull’ordine del giorno, esce nell’orto a raccogliere qualcosa e torna. Si siede, per prima cosa dice: «Dovresti vedere che spettacolo qui in primavera», indicando fuori dalle pareti interamente vetrate, spiegando che l’orto sarà più ricco e colorato, e che gli alberi da frutto tutt’intorno saranno al culmine della bellezza. «La frutta è la mia passione».
Quest’anno la guida Michelin ha assegnato una stella a L’argine a Vencò con la motivazione: «Scelta ristretta per assicurare la freschezza dei prodotti che subiscono poche trasformazioni, accostamenti originali, sapiente uso di erbe aromatiche».
Antonia Klugmann, triestina, ha deciso di percorrere il sentiero della cucina mentre era a Milano a studiare giurisprudenza, a 22 anni. A 26 apre il suo primo ristorante, l’Antico Foledor Conte Lovaria a Udine, e nel 2014 è il turno di questo Argine, costruito sempre con il compagno Romano De Feo.
L’Argine è un parallelepipedo vetrato appoggiato con un lato a un antico granaio, un elemento strano eppure integrato perfettamente con il paesaggio circostante, o forse il merito è di questi boschi e di questi vigneti che sanno accogliere anche forme spigolose, spaziali.
Quando chiedo ad Antonia di parlarmi del suo rapporto con l’orto non mi aspetto il lungo ed entusiasta monologo che mi trovo ad ascoltare e appuntare. Un discorso che va dal particolare – l’esperienza personale – all’universale – il modo di curare la terra – e che respira, riflette le emozioni: «Innanzitutto bisogna studiare. Io ho studiato. E studiando ti accorgi che molte delle pratiche che vengono oggi utilizzate in campagna sono sbagliate. Oggettivamente sbagliate». Dalle prime frasi si intuisce che una delle qualità di Antonia Klugmann, senza eccedere in rigidezza, senza scadere nella maniacalità, è la precisione. La precisione ha molte applicazioni: è nella cura degli ingredienti, della natura, dei clienti. Continua: «Il rapporto con la campagna può essere un rapporto creativo. Perché a seconda di come una pianta viene potata, seminata, innaffiata, il sapore cambia». Parlando si appassiona, scende nei dettagli: «Per me la rivoluzione è stato il cavolo nero: se lo lasci andare in fiore fa dei butti che sono molto simili alle cimette di rapa. Però i germogli di cavolo nero non sono acquistabili. Tre quarti delle cose che puoi fare nell’orto non sono acquistabili. Per esempio i germogli di sclopit, se vai a comprarlo adesso ti dicono che non è di stagione. Invece avendo fatto una semina precoce per poter avere lo sclopit in primavera, abbiamo adesso dei piccoli germogli da utilizzare nei piatti». Di lì a poco dalla cucina uscirà un assaggio: una cicala di mare cruda con funghi, cavolo e tartufo. E germogli di sclopit. Il piatto è sulla carta del ristorante, nel percorso chiamato “Territorio: vita in movimento”, insieme ad altri che a loro volta compaiono sulla tavola: broccolo, midollo e bergamotto; agnello, rosa, karkadè e puntarelle.
Un’altra delle facce della precisione di Antonia Klugmann è nell’indipendenza intellettuale. Quando le chiedo del suo legame culinario con il territorio friulano dice: «Il prodotto locale non è per forza di cose più buono. Mi lascia perplessa il finto utilizzo dei prodotti locali. A Milano se vuoi comprare locale trovi un inquinamento pazzesco, e per essere fresco allora il prodotto lo devi coltivare in serra, nell’hinterland, e poi è sicuramente meno buono di quello che faccio crescere genuinamente in, diciamo, Sicilia». Insiste poi che assaggi la cicala di mare prima che si raffreddino troppo il cavolo e i funghi. Chiede: «Lo senti il contrasto tra caldo e freddo?». Lo sento. È contenta.
Raccontando il piatto, spiega che le cicale di mare vengono dall’alto Adriatico, come tutto il pescato che si utilizza all’Argine. Non cucinerebbe mai materie che non rispettano una precisa etica di sostenibilità, spiega, a modo suo: «Sono profondamente irritata dalle persone che non pensano. Mi stupisco di come si possano utilizzare certi ingredienti, oggi, nella consapevolezza di ciò che accade nel mondo, di ciò che è in pericolo. Credo che se un cuoco utilizza un certo tipo di materia prima vuol dire che certe domande non se le fa».
Su una libreria c’è una copia di Una seconda natura, saggio di Michael Pollan – critico gastronomico, scrittore e giornalista del New York Times – che è il racconto teorico e pratico di un’educazione all’orticoltura e al giardinaggio, da Thoreau ad Alexander Pope («Pollan è un figo», sorride lei), poi Antonia prende un grosso volume, è la prima edizione di Vino al vino, il racconto di Mario Soldati di un viaggio tra i vigneti italiani, sulla copertina c’è un contadino che presenta all’obiettivo, in primo piano, una manciata di grappoli violacei. Usciamo dal ristorante, mi indica le decine di versanti dei colli intorno a noi, snocciolando i nomi delle cantine. Sono decine, forse ancora di più. Siamo circondati dal vino. Il Collio, questa terra, per Antonia trascende i confini politici: «Considero questo territorio un territorio unico: è normale, se pensi che il Collio sloveno è due volte quello italiano. Ma alcune materie prime magari le compro in Stiria, in Austria, oppure a Neblo, a Dubrovo, in Slovenia». Su queste terre si è sviluppato un distretto che è un percorso che unisce la storia – Prima e Seconda guerra mondiale – all’enogastronomia, e a proposito Antonia Klugmann dice: «Il progetto è potente, e ti assicuro che mi sento molto tutelata. Ci sono percorsi turistici e c’è un gran lavoro di comunicazione su quello che succede qui. Rispetto all’isolamento in cui molti chef devono lavorare nel resto d’Italia, qui c’è un piccolo miracolo: i clienti vengono qui non per me, ma per il territorio. O il territorio funziona, oppure io sono un’astronave nel nulla».
Essere chef ha molteplici significati, come succede per tutto ciò che comporta creatività – la scrittura, il disegno, la composizione. Il significato del mestiere ha un’accezione individuale così spiccata da far sì che non possa esistere una definizione univoca. Perché c’entrano i ricordi, soprattutto. Antonia ha radici che affondano nell’ebraismo polacco, in Germania, a Trieste, in Puglia, «e questa è la mia ispirazione, questa mia sfaccettatura culturale», dice, «ma non ho un rapporto malinconico con il passato. Io e il passato stiamo bene, ecco». Sul suo mestiere spiega: «Il concetto che non passa è che su cento cuochi, solo dieci sono chef. Gli altri sono esecutori. Di questi dieci, solo l’uno per cento è veramente creativo e cambia le sorti della cucina. Gli altri seguono. È proprio una questione di cos’è il mestiere: questo mestiere è esecuzione e ripetizione. Sono pochissimi quelli a cui appartiene la creatività ». Che Antonia Klugmann sia una di questi pochissimi lo capisco quando le chiedo che programmi ha per il futuro, e lei risponde: «Sto lavorando a un piatto con la castagna, la bottarga e l’albicocca. È un piatto che mi interessa tanto, vediamo cosa diventerà. A volte per concepire un piatto ci metto dieci secondi, a volte dieci mesi. Più passa il tempo più mi rendo conto che non c’è un modo giusto». Si ferma, la sua attenzione per un attimo è volata altrove, poi torna qui. Dice: «Albicocca, bottarga, e castagne: non è facile eh».
Intervista a Antonia Klugmann
Foto Fabrizio Giraldi
Set Design Manuela Schirra
Testo Davide Coppo