- Melbourne
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Melbourne Luoghi & Persone
1.
Royal Botanic Gardens
Se siete a Melbourne, non perdete l’occasione di visitare questi meravigliosi giardini, che si estendono per trentotto ettari e ospitano più di diecimila specie diverse di piante e fiori. La maggior parte di esse provengono dall’Europa e sono state introdotte a partire dalla metà del XIX secolo. Molti dei giardini, inoltre, sono tematici (Herb Garden, Arid Garden, Fern Gully, Bulbs, Rose Garden). Qui c’è la sede del National Herbarium of Victoria, che si occupa di studiare e identificare le piante: potrete visitare anche la State Botanical Collection, che include più di un milione di specie di piante e una collezione di libri e giornali dedicati.
2.
Geoff Newton
Se siete appassionati di arte contemporanea e volete curiosare nella scena più promettente di Melbourne, la tappa giusta è Neon Parc, la galleria gestita con coraggio e intelligenza da Geoff Newton. Il curatore e artista, per celebrare i primi dieci anni dello spazio, ha inaugurato recentemente una seconda galleria satellite, Neon Parc Mark II, nel quartiere di Brunswick. «Sentivo che era il momento giusto per sperimentare su scala più grande, anche se è sempre difficile coordinare tre o cinque gallerie diverse». Newton, classe 1977, si è laureato nel 2000 presso la Camberra School of Art e ha all’attivo diverse personali. Nel 2013 è stato inserito da BLOUIN ARTINFO nella lista dei dieci curatori internazionali da tenere d’occhio.
3.
Palais Theatre
Fino agli anni Cinquanta, il Palais di Melbourne era il posto dove andare a vedere i film, un suggestivo cinema caratterizzato dalle lunghe tende rosse, ma nella sua lunga storia ha ospitato spettacoli teatrali, l’opera e il balletto e alcuni fra i più grandi musicisti che sono passati dall’Australia, dai Rolling Stones ai Beach Boys. Ancora oggi è la location dei grandi eventi musicali in città, e non solo: se siete di passaggio controllate sempre il programma. Il CEO è Neil Croker, che in passato ha lavorato ai tour di AC/DC, Dire Straits e Michael Jackson, fra gli altri.
4.
Michelle Payne
Tra le personalità che più hanno fatto parlare di sé nell’ultimo anno, c’è sicuramente la trentenne Michelle Payne, che lo scorso 3 novembre è stata la prima donna fantino ad aggiudicarsi la prestigiosa Melbourne Cup, in sella a Prince of Penzance. Michelle è originaria di Miners Rest, una località vicino a Ballarat, sempre nello stato di Victoria. La sua carriera è iniziata da giovanissima e dopo una brutta caduta da cavallo nel 2004, è ritornata con impegno e dedizione a gareggiare a livelli altissimi. In 155 anni di storia della Melbourne Cup, vi hanno partecipato solo quattro donne e una sola ha vinto, indossando per pura coincidenza i colori del movimento delle suffragette, viola, verde e bianco. Potete seguire Michelle su Twitter @mj_payne
5.
National Gallery of Victoria
La National Gallery, conosciuta anche come NGV, è il più importante museo di Melbourne e si divide in due sezioni: NGV Australia e NGV International. Fondata nel 1861 sulla scia delle grandi collezioni pubbliche inglesi, raccoglie più di sessantamila opere d’arte, per la maggior parte derivanti da acquisti statali e donazioni. Nella sezione International, i visitatori potranno ammirare un’ampia collezione di arte antica, con alcune sale dedicate all’arte primitiva oceanica, e una ricca collezione di disegni e stampe, tessuti, fotografie e oggetti d’arte. La sezione australiana, invece, comprende oltre venticinquemila opere che vanno dal periodo coloniale all’arte contemporanea.
6.
State Library of Victoria
La State Library of Victoria si trova nel centro del distretto business di Melbourne e conserva al suo interno oltre due milioni di libri. Fondato nel 1853, è la biblioteca di riferimento dell’ateneo della città ed è oggi oggetto di un grande progetto di ristrutturazione, annunciato dal Ministro delle industrie creative Martin Foley nell’aprile del 2015. A fronte di un investimento di oltre 55 milioni di dollari, sarà restaurata la Queen’s Hall, verranno realizzati un giardino panoramico sul terrazzo e un’area dedicata ai bambini, mentre il 40% dello storico edificio sarà completamente aperto al pubblico.
Quando uno degli Apostoli si è accasciato su se stesso sotto gli occhi attoniti dei turisti in visita al Port Campbell National Park, nei pressi di Melbourne, all’incirca venti milioni di anni si sono sgretolati assieme alla roccia calcarea di quel gigante di quasi cinquanta metri. Era il 2005 e i Dodici Apostoli, la scogliera frastagliata che s’innalza dall’oceano Antartico e fa da cornice alla costa dello stato di Victoria, uno dei profili che più caratterizza l’Australia nel mondo, ridisegnava se stessa per l’ennesima volta, com’è d’altronde nella natura della sua conformazione geologica. Era già successo nel 1990, quando il London Bridge, un ponte naturale a due arcate sempre nella stessa zona, ha ceduto dalla parte più prossima alla riva, lasciando due persone praticamente impossibilitate a ripercorrere all’indietro il sentiero che le aveva portate lassù. Da allora lo chiamano London Arch e si trova anch’esso lungo la spettacolare strada panoramica Great Ocean Road, assieme agli Apostoli Razorback, Island Archway, Thunder Cave, Bakers Oven Rock, Sentinel Rocks e The Grotto, sopravvissuti a quella stessa erosione che ha contribuito a formarli. Gli Apostoli non si sono sempre chiamati così: fino al 1922, la scogliera era conosciuta come The Sow and the Piglets, la scrofa e i maialini, dove The Sow era l’isola di Muttonbird, che si trova all’imbocco della gola di Loch Ard Gorge, e i piglets gli spuntoni di roccia ancora intatti. Non conosciamo il loro numero preciso: le cronache locali riportano fossero molti di più di quelli che vediamo oggi, sebbene di più piccole dimensioni. Su una mappa risalente al 1846 si contano infatti più formazioni rocciose delle otto rimaste in piedi e pare che i primi navigatori europei che se le trovarono di fronte, ne avessero contate tante quante i discepoli di Gesù Cristo, e che così perciò le avessero ribattezzate. È dai primi anni Venti, però, che i piglets divennero ufficialmente gli Apostoli, in virtù della maggiore potenza evocativa del riferimento biblico, che certo rendeva giustizia alla grandiosità di quei palazzi di pietra, tanto mastodontici quanto in realtà fragili, che accompagnavano quella che diventerà la Ocean Road, 243 km tra le città di Torquay e Allansford. Così, quando si è diffusa la notizia del ritrovamento di cinque Apostoli ancora intatti, questa volta sommersi e incredibilmente risparmiati dal logorio delle onde, la formazione è tornata al completo, con addirittura qualche aggiunta rispetto agli apostoli originari. Il nuovo ritrovamento ha dello straordinario, come confermano i ricercatori dell’Università di Melbourne. «Quando li abbiamo visti, è stato uno shock – ha dichiarato Rihannon Bezore, del dipartimento di Geografia dell’ateneo della città – sono strutture molto particolari, vere e proprie cataste di materiale, che è difficile pensare non erose in profondità. Il fatto che si siano conservate è decisamente un evento unico». Come hanno spiegato gli studiosi, la ragione della loro salvezza è dovuta a un improvviso innalzamento delle acque, avvenuto all’incirca sessantamila anni fa, dopo un “massimo glaciale”. «Gli oceani s’innalzavano a ritmi due volte superiori rispetto a quelli attuali – continua Bezore – così velocemente che le onde marine non hanno avuto il tempo di eroderli del tutto e farli collassare». Ecco perché sono arrivati fino a noi: cinque “piccole” torri che si trovano a circa settanta metri di profondità, almeno sei km al largo da uno dei siti turistici più famosi del Paese. E se anche non sappiamo con esattezza quante fossero in origine le rocce che spuntavano dall’acqua, da quando abbiamo iniziato a osservarle sappiamo però che cambiano continuamente e, all’amara consapevolezza che i crolli improvvisi sono stadi necessari di questa tipologia di monumenti naturali, si aggiunge ora lo stupore per la recente scoperta, che ci consegna ancora una volta l’immagine di un ecosistema in movimento, lentissimo e repentino allo stesso tempo. D’altronde, quella stessa fascinazione per il remoto, lo sterminato, l’inesplorato, è ciò che spinge ogni anno milioni di turisti alla scoperta del continente australiano. È singolare pensare come l’Australia sia uno dei paesi più urbanizzati al mondo, ma con una concentrazione di insediamenti umani localizzata per lo più sulla costa sud orientale, mentre per una superficie pari all’incirca a sei milioni e mezzo di km altro non ci sia che l’enigmatico deserto rosso, detto the outback o the bush. Uno spazio enorme, indefinito e onnicomprensivo, che rappresenta un archetipo per gli stessi australiani, i quali (così vuole il luogo comune) non saprebbero, né vorrebbero, indicare dove inizia e dove finisce. Basti pensare alla cinematografia che ha l’outback come sfondo e protagonista, dalla fortunata saga di Mad Max (regia di George Miller, il primo episodio è del 1979, l’ultimo del 2015) al mitico Crocodile Dundee (di Peter Faiman, 1986), passando per pellicole più intimiste e talvolta drammatiche, come Priscilla, la regina del deserto (di Stephen Elliott, 1994) e La generazione rubata (di Philipp Noyce, 2002). Il bush e i suoi confini labili, la moltitudine di parchi naturali, la ricchezza strabiliante della flora e della fauna e la profondità delle sue radici aborigene fanno dell’Oceania una sorta di luogo mitologico sulla Terra, unico nel suo genere, dove le rocce sfidano il mare e arrivano a innalzarsi in tempi lunghissimi, per poi scomparire in meno di un minuto. Ma niente paura: sott’acqua c’è tutto un altro continente da esplorare.
