A pranzo Da Vittorio

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Da Vittorio è un’istituzione a Bergamo (e non solo) da cinquant’anni, festeggiati proprio nel 2016. E una grande azienda di famiglia che il padre, colui che ha dato il nome al locale, ha lasciato dieci anni fa nelle mani dei cinque figli. Tra loro ci sono Enrico e Roberto Cerea, i due fratelli chef che hanno traghettato il ristorante fino alla dimora di lusso che è oggi. Coniugando tradizione e creatività, classicità e innovazione, la loro cucina da tre stelle Michelin parte dal territorio ma ha lo sguardo rivolto alle eccellenze internazionali, come i clienti che arrivano qui da ogni parte del mondo. Ed è il ponte tra il passato, da ricordare con una punta di nostalgia, e il futuro. Perché «ora dobbiamo arrivare ai cento anni. E superarli».

Si può condensare Da Vittorio in una sola parola? Sì, e senza sforzo: famiglia. Farsi accogliere dai Cerea è come entrare in casa. Quella di Enrico e Roberto, per tutti Chicco e Bobo, fratelli chef che hanno portato l’indirizzo gourmet bergamasco fino alla vetta delle tre stelle Michelin, conquistate sei anni fa. E di Francesco, il terzo maschio di casa, oggi spina commerciale dell’azienda. Di Rossella, che vigila in sala e si prende cura di ogni dettaglio. Di mamma Bruna, scortata dal fedele barboncino nero che non la perde di vista neanche per un momento. Su tutto e tutti aleggia l’anima di papà Vittorio, colui che il 6 aprile del 1966 inaugurò il primo locale a Bergamo, dove ora la quinta componente del clan, Barbara, gestisce lo storico caffè Cavour 1880. Undici anni fa Da Vittorio si è spostato a Brusaporto, a pochi chilometri dalla città, in una dimora – così è denominata – entrata nella rete Relais & Châteaux, tra vigne che punteggiano la campagna rivolta alle prime valli. I Cerea hanno ampliato e definito ancora meglio l’eredità paterna, senza perdere di vista il cuore: «La cucina è e resterà sempre il centro del nostro lavoro. La cucina non smette di emozionarci, e speriamo continui ad emozionare gli altri. La cucina deve essere un premio, per chi viene a mangiare da noi». Così esordisce Enrico, e suona subito come un manifesto.

I fratelli Cerea sono quattro mani ai fornelli e una sola testa, si capisce dal fatto che ti danno le stesse risposte sia quando ci chiacchieri insieme sia quando li prendi uno per volta. «Lavorare in due aiuta: dove non arriva uno, c’è l’altro», spiega Chicco. «Lo svantaggio è che siamo entrambi testardi: due bergamaschi fatti e finiti. Ognuno pensa di avere ragione, a un certo punto bisogna fermarsi. E fidarsi». Gli fa eco Bobo: «Siamo cresciuti a sgomitate in cucina, sfidandoci sulle ricette: uno provava un piatto e l’altro cercava di farlo meglio. Ma è sempre rimasta una competizione sana, forse il vero motore che ci ha portati fino a qui». La sorpresa, se mai, è che pur dividendo la stessa cucina non sempre si incrociano, colpa dei tanti impegni che oggi contrappuntano la loro agenda. La domenica mattina è ancora il momento sacro, ci si siede tutti attorno al tavolo a fare il punto, stabilire priorità e scadenze. Perché Da Vittorio è il ristorante, l’hotel, il caffè, ma anche la scuola di cucina, il bistrot all’aeroporto di Orio al Serio, il catering e i progetti che spaziano da Vinitaly alle collaborazioni con l’estero. «Oggi contiamo quasi trenta ragazzi in cucina, centoventi dipendenti nel solo ristorante, sommando tutto si superano le trecento persone»: Enrico snocciola numeri da grande azienda, ma il clima che si respira è rimasto quello di casa. «Siamo cresciuti a Bergamo e qui siamo rimasti, osservandola cambiare nel corso del tempo. Abbiamo dato tanto alla nostra città e abbiamo ricevuto di più. Oggi è diventata uno dei centri più ricchi dell’economia europea, ha un aeroporto che attira una vastissima rete internazionale, è a un passo da Milano ma immersa nella quiete della collina». Si finisce a parlare del “chilometro zero”, della moda del prodotto 100% local come nuovo baluardo della cucina italiana. «Il nostro territorio ha una delle più alte concentrazioni di DOC e DOCG di tutta Italia, quando viaggio all’estero mi piace portare le fragoline di bosco o lo “sciur”, un erborinato di capra stagionato con le bacche rosse tipico di queste parti. Ma l’alta cucina è un mondo che non deve chiudersi in se stesso, non può prescindere dalle eccellenze di tutto il mondo. Da Vittorio arrivano ogni giorno king crab dall’Alaska ancora vivi, poter valorizzare prodotti come questo è il privilegio e il dovere di un grande chef». Arrivano anche la mattina del nostro incontro, insieme a casse di scampi del Mediterraneo, un polpo che Enrico tasta e soppesa in prima persona, un branzino di dieci chili troppo bello per lasciarselo scappare: «E dai, abbassami un po’ il prezzo!», scherza al telefono con il fornitore. Uno dei sette utilizzati solo per il pesce, mi dirà poi. «I menù si creano anche così: scegliendo di giorno in giorno la materia prima che magari non avevi nemmeno previsto di ordinare».

Chicco il visionario e Bobo il tenace presidiano la cucina, per loro un regno per gli altri un labirinto, là dove finiscono i fuochi dei primi inizia il reparto pasticceria, e poi il tavolo degli antipasti, la stanza delle stoviglie di rame, via così, fino a perdersi. E non si fanno tentare dalla gastrocrazia che ha trasformato molti dei loro colleghi in nuove star dei mass media. «Il boom televisivo della cucina è un’occasione per tutti noi cuochi. Ma essere presenti nel proprio ristorante, prima che davanti alle telecamere, è il requisito fondamentale per uno chef: non si può mai mollare il campo», precisa Enrico. «Anche se col passare del tempo noi cuciniamo soprattutto con l’olfatto e con gli sguardi, capiamo in un attimo se il ragazzo che abbiamo davanti sta facendo bene o male. È il segreto dell’esperienza, mi fa effetto essere passato da un giorno all’altro dalla parte di chi non deve più apprendere ma sa trasmettere il mestiere». Come faceva Vittorio con loro. «Papà mi ha messo a undici anni ad osservare il suo lavoro in cucina», ricorda Roberto. «Mi sono innamorato dei primi, che ancora oggi sono la mia passione: quando ho un’idea per un piatto, è sempre lì che la dirotto. L’ultima? Un risotto con crema di cipolla di giarretana affumicata, gamberi rossi di Mazara crudi e gocce di mandarino». Ma i sapori più radicati nella memoria dei fratelli Cerea restano le maddalene d’infanzia: «La peperonata come la faceva papà, con tutte le verdure che aveva sotto mano e un po’ di pancetta: la mangiavamo col pane finché nella pentola non ne restava più. E i suoi paccheri al sugo di tre pomodori mantecato con il parmigiano reggiano: ancora oggi è uno dei piatti più richiesti e amati da noi». Dopo averlo assaggiato, non si può che confermare.

Per Enrico e Roberto la cucina è ricerca ininterrotta, incontro di suggestioni, dialogo anche con il parente più prossimo al cibo: il vino. «Come quando crei un piatto, anche in questo campo esistono delle regole, ma ci piace essere ogni volta sorpresi. Un cuoco deve avere palato anche per gli abbinamenti più azzardati, possono uscirne incroci inattesi e bellissimi», confessa il primo. «Oggi si gioca sempre più spesso su contrasti e temperature, è concesso raffreddare i rossi e lasciare i bianchi più morbidi. Ultimamente mi piace abbinare alla nostra classica cotoletta orecchia di elefante un buon rosè. La cucina è un campo soggettivo, nessuno ha ragione, si può solo cercare di accompagnare alla scoperta di emozioni nuove chi ha voglia di fare questo viaggio». Si torna al rapporto col cliente, che arriva in questa casa dove ciascuno ha naturalmente il proprio ruolo assegnato e per qualche ora si sente parte della famiglia. «Finché rimane dentro la fantasia di uno chef, un piatto non esiste», dice Bobo. «È la persona che lo gusta e lo apprezza ad ufficializzarlo, a metterlo al mondo».

1966-2016: Da Vittorio festeggia mezzo secolo di attività. «Siamo arrivati alla terza generazione, è un traguardo per nulla scontato, ci onora e ci commuove», abbozza Roberto con un sorriso. «Dopo cinquant’anni possiamo dire che la cucina è nel nostro Dna, anche se ancora non so cosa sceglieranno di fare i nostri figli. Non si può obbligare nessuno a un mestiere così impegnativo: non saremmo qui senza grande sforzo e sacrificio del tempo, degli affetti, degli anni più belli della vita. Ma è un lavoro che ti dà in cambio più di quanto immagini: non è un caso se tutti noi fratelli abbiamo proseguito sulla strada tracciata dai nostri genitori». Enrico cede solo per attimo alla nostalgia: «Mio padre ha creato tutto questo dal nulla: aveva perso suo padre nel dopoguerra, sentiva sulle spalle il peso di una famiglia da sostenere. Questo è il passato, adesso c’è tutto il futuro davanti. La prima sfida è arrivare ai cento anni, e superarli. Da Vittorio è diventato grande, adesso c’è il progetto di ampliarci anche all’estero, lo stiamo valutando da un po’». Lo sguardo è rivolto a Occidente o a Oriente? «Non voglio dirlo ancora: anche se bergamasco doc, sono scaramantico anch’io». 

Si scatta un ritratto di famiglia, i Cerea posano sulla scalinata all’ingresso. Per un momento si guardano tutti insieme. Forse sta proprio lì, in quel capirsi senza bisogno di dire niente, l’ingrediente segreto di Vittorio.

Intervista a Enrico e Roberto Cerea
Testo –  Mattia Carzaniga
Foto Fabrizio Vatieri